"Non ho scelto il male né il bene, Ma attraverso e al di sopra del male, ho scelto la poesia" C. Baudelaire.



sabato 23 gennaio 2016

Quattro "Spleen" e "la cloche felée"

Siamo sul finire della sezione I: Spleen et Idéal.

In questo post, racconterò il percorso compiuto dal poeta in cinque poesie consecutive, situate nella parte finale della sezione uno, Spleen et Idéal, composte con stili diversi, ed accomunate dallo Spleen, dalla nostalgia, dalla progressiva perdita della Speranza, per finire col trionfo dell'Angoscia, che quasi annulla l'Idéal.  
Dora Maar
"Gli anni ti tendono un agguato"

Sul finire della prima sezione dei fiori, lo spleen sembra sottrarre spazio e possibilità all’Idéal, che è la sua controparte o se vogliamo, la sua compensazione artistica.
Spleen” come Ennui, ma in inglese, per accentuare il senso di estraniamento, ed “Ennui” come “Noia”, un sentimento moderno narrato con successo, a inizio XIX secolo, nel racconto eponimo di René de Chateaubriand, "René". 
La noia, che per Chateaubriand era dovuta ad un cambiamento storico inarrestabile, diventa in mano a Baudelaire, una sorta di cattedrale poetica, rappresentativa di tutto un secolo disorientato rispetto alla storia, alle forze politiche in campo, alla scienza che avanza, alla società, sempre più borghese e materialista. Questi cambiamenti sono visibili anche lungo gli ampi boulevards parigini, volti a manifestare anche visivamente, il potere di Napoleone III, o di fronte a palazzi interamente ricostruiti o abbelliti. Tutto subisce un processo di inarrestabile metamorfosi a Parigi, ed accade molto in fretta. (Il cigno: "la forma di una città cambia più in fretta del cuore di un mortale") lasciando tutti un po’ smarriti, impotenti, praticamente “esuli” anche in terra propria. A tal proposito, cito ancora la poesia: il cigno - penultima strofa*. 
* La morale sembra essere:
Tutti abbiamo perduto qualcosa - come Andromaca, il cigno e la negra- dunque siamo tutti esiliati, anche noi che viviamo qui a Parigi, noi uomini moderni, per cui:
- Tutti siamo nobili (e questo cancella l'apparente opposizione iniziale)
- Nobilita la sofferenza
- E anche lui si esilia!

Lo Spleen, come il rintocco funebre di una campana, torna con costanza e monotonia in cinque poesie dal titolo: La cloche fêlée (La campana incrinata) del 1851, che in principio si chiamava “Spleen”, poi Spleen I, sempre del 1851, Spleen II Spleen III e Spleen IV tutte pubblicate nella prima edizione dei fiori nel 1857.

I numeri (I, II, III, IV) sono stati da me aggiunti per comodità di riferimento, ma non esistono nei titoli, che si limitano al “rintocco” monotono ed ossessivo della parola “Spleen”, ed a seguire: “Ossessione
il gusto del nulla
Alchimia del dolore”, 
Orrore simpatico
L’Héautontimoruménos
l’irrimediabile”e 
l’Orologio” che chiude la sezione I (in principio era la terzultima poesia della lista ad introdurci alla sezione II: Tableaux parisiens)

Quanto alle “spleen”, mi è parso interessante prendere per un attimo le distanze dalla precisione dei versi, per intrecciarli in un unico racconto, praticamente in prosa, al fine di vedere che immagine che ne sarebbe uscita. In questa sede però, mi limito a raccontare le poesie a grandi linee ed in successione. 

Campana della chiesa dell'Annunziata.

I La campana incrinata getta un urlo religioso nel mezzo della nebbia in una notte d'inverno. Nel chiuso di una stanza scaldata dal camino, questa "voce" cristiana risveglia nella mente del poeta, che si trova nella stanza, ricordi lontani. La voce grossa della campana somiglia nelle sue orecchie, a quella di un militare sotto la tenda, laddove la sua anima, incrinata come la campana ed annoiata, emette suoni deboli, che gli ricordando il rantolo di chi muore sofferente in un pozzo di sangue, sommerso da altri cadaveri, immobile. 

Mia la foto e l'elaborazione. 

II Spleen -1- Piovoso”, è la prima parola della poesia, e va intesa alla lettera. Nel calendario repubblicano, questa parola designa i primi mesi dell'anno, freddi e piovosi, quindi gli è funzionale. 
Come un’urna, il cielo riversa fredde tenebre sul mondo dei vivi, nei sobborghi nebbiosi, e mortalità su quello dei morti, che è il cimitero. Di fatto, è il poeta che riversa sulla città la sua malinconia, associando il suo stato d'animo alla stagione invernale. La pioggia, potremmo dire, non ha colpe. 
Nella seconda quartina egli compara il suo gatto magro e scabbioso che si agita in cerca di un giaciglio sul pavimento, all'anima del poeta che, come un fantasma freddoloso, erra sulla grondaia. E’ nota la passione di Baudelaire per i gatti,  forse per il loro spirito indomito ed anche un po’ gotico (Penso a Poe, spirito affine d'oltreoceano, ma anche al film di Jean Vigo, "L'atlante", nel quale il regista sostituisce i cani previsti dal copione, coi gatti, creando così una maggiore suggestione.)
Il fuoco, che nella prima poesia scalda il poeta, diventa ora: un ceppo affumicato, quindi si sta spegnando. Ancora una campana, stavolta “bourdon” (non “cloche”) che in questa occasione non getta un grido religioso, ma si lamenta ed accompagna in falsetto una pendola (orologio) raffreddata mentre in un mazzo di carte che emana odori lerci, (fatale eredità di una vecchia idropica*) un fante di cuori e una donna di picche chiacchierano sinistramente dei loro amori defunti.
*La degenerazione idropica è un processo patologico dovuto all'accumulo di acqua all'interno della cellula.


III Spleen -2-
 Ancora souvenirs, come nella prima poesia: "La cloche
 fêlée". Lì erano ricordi lontani, qui sono numerosi e anche lontani. Il poeta afferma di avere più ricordi che se avesse mille anni. (mille come il numero ripetuto più volte nella poesia “I fari”
Paragona la sua mente ad un cassetto pieno di conti, versi, biglietti e tanto altro, eppure il cassetto nasconde meno segreti del suo triste cervello che ora paragona ad una piramide, ad un sepolcro contenente più morti di una fossa comune. I morti del cimitero della seconda poesia, finiscono letteralmente nella mente del poeta, mentre lì erano solo bagnati da fredde tenebre. Sembra che la pioggia di prima abbia qui impregnato anche la sua mente.
“Sono un cimitero aborrito dalla luna” dice, e qui, come rimorsi, i vermi tormentano i suoi cari defunti. Anche in altre poesie si narra di vermi su cadaveri di persone a lui care. Interessante notare che, in francese, "vers" significa "vermi" ma anche "verso"... poetico. 
“sono un vecchio salottopieno di rose appassite e mode ormai superate, e in cui si respirano odori di un flaconcino aperto (già incontrato nella poesia “Le flacon”, sezione I, e gli odori ricordano il mazzo di carte della poesia precedente. Odori lerci, per l'esattezza.)

Dopo la nebbia e la pioggia delle altre composizioni, ora è la neve a caratterizzare quelle lunghissime giornate statiche d'inverno, e ad alimentare la noia, figlia di "incuriosité", ovvero di indifferenza che assume in tali occasioni, proporzioni di immortalità; quasi paradossale visto che tutto attorno a lui muore. Vero però che nella poesia "Au lecteur" ci aveva avvertito che la noia è capace da sola di fare volentieri della terra una rovina e con lo sbadiglio ingoierebbe il mondo. 

Infine si rivolge alla sua materia vivente che “non è più” figura retorica che sta per “morta”, ma poi continua, ed il senso cambia: 
Non sei che un granito circondato da vago spavento, assopito nel fondo delle nebbie (una costante) del Sahara. (nebbie di sabbia sta volta). Sempre rivolgendosi alla materia vivente, la paragona ad una sfinge ignorata dal mondo incurante, dimenticata sulle mappe “sur la carte” (nella poesia precedente le carte parlano dei loro amori defunti, ma sono carte da gioco, queste invece sono carte geografiche, tuttavia, in entrambi i casi, c'è aria di sinistro destino)
La sfinge ha un umore “farouche”, quindi selvaggio. Altrove l’aggettivo è associato ai gatti, come nell’altra poesia (gatto-animo del poeta) il cui umore canta solo al tramonto del sole. Per Mallarmé, il tramonto è l'altro nome della morte degli Dei, ed in Baudelaire, che lo precede, non manca un generale senso di decadenza (Penso a "La vie antérieure"). 

IV Spleen -3- Qui il poeta si compara al re di un paese piovoso (“Piovoso” era l’inizio del primo "spleen"). Nella poesia si sfrutta il topos del re triste ed inconsolabile, infatti egli è giovane ma vecchio, sprezzante degli inchini dei precettori, annoiato dai cani e dalle altre bestie, ma anche dal buffone di corte e dalle donne incapaci di piacere a questo giovane scheletro. La caccia, così come la visione del popolo che muore di fame davanti al suo balcone, gli sono egualmente indifferenti, e per questo il suo letto si trasforma in tomba. (riferimento al fiordaliso, quindi è un re di Francia)
Il "savant" capace di produrre oro* per lui, non ha mai saputo estirpare dal suo essere l’elemento corrotto, e coi bagni di sangue (vedi il finale della prima poesia citata) ereditati dai romani di cui in vecchiaia i potenti si ricordano, non ha saputo scaldare quell’ebete cadavere nel quale, al posto del sangue, circola acqua léthé. (chiaramente allude al fiume dell'oblio).
*Produrre oro, come sappiamo, è il mestiere dell'alchimista , al quale spesso il poeta associa il suo mestiere di poeta "tu mi hai dato del fango, ed io ne ho fatto oro", scrive rivolgendosi alla sua città, che è Parigi,  in un progetto di prefazione successivo alla prima edizione, volto a "spiegare" gli intenti del suo libro, condannato e censurato, dunque non compreso dai più. Si enfatizza mi sembra, il bisogno di riscrivere la realtà, filtrandola con gli occhi del poeta, che in questo caso, fallisce, come tutti gli altri, rispetto al re infelice, divorato dalla mancanza di curiosità.  

Dora Maar
"Gli anni ti tendono un agguato" 

V spleen -4- L'ultima poesia della serie è la più angosciante perché segna la resa della Speranza e la vittoria dell’Angoscia. 
Nb:Le maiuscole stanno a rappresentare l'allegorizzazione delle due parole. Ricordiamo che ai suoi tempi questa figura retorica era considerata superata, antica, ma il poeta ne fa ampio uso.  

La poesia si avvale dell'uso di anafore per i primi tre versi, che stanno a rafforzare il senso del rintocco, del ritorno, della monotonia dello spleen. 
Quando Il cielo è basso e cupo, pesa come un coperchio sull'anima che geme in preda a lunga noia. Esso versa dall'alto, come Pluviose nell'altra poesia; un giorno nero più triste delle notti. (nella prima era notte, qui è un giorno che diventa notte) 
Quando la terra si trasforma in umida galera in cui la Speranza come un pipistrello vola sbattendo ovunque con le sue timide ali, e sbatte la testa sui soffitti fradici.
Quando la pioggia imita, scendendo, le sbarre di una prigione, e mentre un popolo di ragni infami tende le sue ragnatele nel nostro cervello, delle Cloches (campane) all'improvviso saltano con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, come spiriti erranti e senza patria che si mettono a gemere ostinatamente. Non più un grido religioso come nella prima, o il lamento del Bourdon, che è comunque una campana, ma si lamenta, questa invece urla da far paura. Infine, dopo tanto parlare di cimiteri e morti, arriva nella poesia, il tempo dei funerali e relativi cortei di carri funebri silenti (dopo l'urlo della campana) senza tamburi e musica. 

Tutto accade nell'anima del poeta, dove i carri sfilano lenti. 
Perché sta accadendo? 
la Speranza sconfitta, piange, e l’Angoscia atroce pianta la sua bandiera nera nel suo Cranio, la speranza è finita, e lo spleen ha vinto sull'Idéal. 

Nessun commento:

Posta un commento